SEMINARIO TEORICO ESPERIENZIALE PER INSEGNANTI: DA MAGGIORDOMI A PIONIERI DELLA SCUOLA

DA MAGGIORDOMI A PIONIERI DELLA SCUOLA

Credo che l’unica considerazione che oggi si possa fare oggi, in Italia, sulla scuola è di carattere etico : la scuola oggi corrisponde alla “strage degli innocenti”

Il bambino oggi entra a scuola, spesso anche all’asilo, come bambino e il compito preciso dato all’insegnante fin da subito è quello di impedire a un bambino di comportarsi come tale. L’obiettivo è quello di  insegnargli al più presto a comportarsi come un adulto, come un piccolo impiegato.  Eticamente  quindi viene addestrato a due cose principali:

1  A diventare subito adulto

2 A diffidare di tutto ciò che è cultura perché nell’insegnare la storia e più avanti anche la letteratura e la filosofia all’insegnante non viene data la possibilità di seguire un criterio di senso. L’insegnante non fa altro che fornire dati, nozioni che sono troppi da ricordare e che non hanno un struttura portante nell’ambito di quelle che potremmo chiamare idee e pensiero. Non potendoli ricordare tutti questi dati, il bambino e poi il ragazzo li ricorda solamente per il tempo dell’interrogazione. Questo influirà molto sul suo senso della cultura nella sua esistenza.

Una parte della personalità del bambino diventando troppo presto adulto viene uccisa  e nel corso della vita per lui, recuperare quella parte della sua personalità, sarà difficilissimo e porterà ad una grandissima perdita in quanto quella parte è indispensabile per vivere con una mente libera, attiva, autonoma e creativa.

Un altro modo  possibile di intendere e guardare la scuola oggi è quello politico. Da questo punto di vista la scuola è uno strumento straordinario di Manipolazione e di Potere che domina gli insegnanti che imparano a essere dominati e ad auto-dominarsi. Questo è il modo in cui anche il bambino viene addestrato all’autorità, al giudizio, ai voti da parte di una autorità competente, l’insegnante che lo infila in quei dedali che si chiamano esami e che addestrano a loro volta all’ansia e alla sudditanza.

Lo stesso vale anche l’insegnante che risponde del suo operato, della sua intelligenza al Ministero dell’Istruzione e che è a sua volta sempre più addestrato alla sudditanza.

In questo momento in Italia la situazione appare ancora più complessa in quanto ci si trova in una gravissima situazione di emergenza culturale ed esistenziale.

In una situazione normale la scuola comunque fornisce determinati contenuti che il bambino può imparare ad assimilare e anche a rifiutare sviluppando una mente critica e attiva. In una situazione come quella attuale i contenuti non ci sono più e sembra non esserci alcun criterio che fornisca agli allievi del materiale sul quale poter pensare. E infatti: non c’è nessuna forza e nessuna presa sull’allievo.

La scuola però, potrebbe diventare un “Luogo di Soccorso Umano” in cui gli insegnanti anche solo minimamente dotati da un punto di vista etico, potrebbero sentire il bisogno di creare una sorta di alleanza  con gli allievi per accorgersi insieme di quanto sia assurdo quello che c’è fuori e di quanto complici con quello che c’è fuori siano i libri di testo e i programmi ministeriali. Un insegnante che vuole produrre nell’allievo la capacità di pensare non potrà che produrre dei pensieri contro la civiltà che c’è fuori, le sue false verità, i suoi limiti pre-stabiliti e i suoi falsi contenuti.

Una soluzione di questo genere potrebbe non essere pensabile perché gli insegnanti sono pagati dallo stato e chiunque voglia parlare della scuola della scuola oggi in termini etici si trova davanti ad un problema che appare essere QUASI senza soluzione

Nella realtà delle cose, al di fuori della descrizione della realtà delle cose la soluzione esiste,  anzi ne esistono migliaia, è sufficiente che si producano delle idee geniali, nuove, creative, da pionieri e  che si trovi il coraggio di metterle in pratica. Non si tratta di andare contro un sistema, cosa inutile e controproducente ma di andare oltre a un Sistema senza confliggere.

Il fine quale è? L’appagamento di chi insegna e di chi impara.

Dr. Michela De Mattio

Medico e Counselor Relazionale a Indirizzo Fenomenologico-Esistenziale

CONOSCERE E CONOSCERSI PER ESPERIENZA: L’APPROCCIO DEL CONSELING A INDIRIZZO FENOMENOLOGICO ESISTENZIALE NEI SEMINARI DI CRESCITA PERSONALE

conoscere e conoscersi per esperienza

L’approccio fenomenologico-esistenziale, mette al centro dell’attenzione l’esperienza che l’essere umano fa con il mondo e nel mondo, dove per mondo si intende la il mondo della vita fatta di persone, situazione e cose. Mentre l’epistemologia si occupa dei significati convenzionali, la fenomenologia si occupa del senso delle cose. L’esperienza è soggettiva e  non può essere impiantata o trapiantata negli altri. Ognuno di noi ha bisogno di fare le proprie esperienze. Il ruolo del counselor, anche nei seminari di crescita personale è quello di accompagnare il partecipante nella sua esperienza di apprendimento, senza interferire con i propri giudizi o pre- giudizi. L’approccio fenomenologico/esistenziale sottolinea che la conoscenza è soggettiva, basata sul sentire individuale, ossia sulla specificità di ogni sentire e sulla capacità di trasformare il sentire in esperienza, in apprendimento.

Ma, come può costruirsi un processo auto-conoscenza a partire dal sentire  personale?

Il sentire non è verificabile come giusto o sbagliato, è personale. Nell’approccio fenomenologico-esistenziale, il processo di auto-conoscenza si fonda sulla creazione di un contesto affettivo e di formazione in cui counselor  e partecipante sono individui con pari dignità, e partecipano insieme ad un processo di co- costruzione dell’apprendimento, di responsabilizzazione del processo di conoscenza, e, di conseguenza, di trasformazione di sé. E’ prima di tutto la relazione tra counselor e ogni partecipante e le differenze tra di loro che sostengono questo processo trasformativo e di apprendimento, in cui diventa centrale l’empatia, ossia la capacità di essere in contatto con il sentire dell’altro ed al tempo stesso con il proprio sentire, ma senza  confonderli mai e mantenendo il confine della relazione non da intendere come divisione ma come distinzione del sentire

Questo è il presupposto perché il partecipante possa conoscersi, imparare a stare in relazione con se stesso e con gli altri e contemporaneamente sviluppare il suo proprio stile  personale di abitare il mondo con il fine dell’appagamento.

L’esistenzialismo e la fenomenologia, inoltre, guardano all’essere della persona nel tempo, e sottolineano la singolarità e l’originalità dell’esperienza individuale e la responsabilità personale dell’individuo che costruisce il proprio progetto esistenziale e il proprio sapere.

Auto-conoscersi e apprendere un modo appagante di stare in relazione con l’alterità dovrebbe sempre avere come obiettivo comprendere meglio se stesso e gli altri nel proprio contesto di vita per creare modi di convivenza sempre più umani. Questo presuppone che i partecipanti sappiano per che cosa partecipano e i counselor per che cosa conducono e che i seminari vengano vissuti e compresi per quello che sono: una situazione interpersonale e non un centro elaborazione dati. Viene sollecitata la riflessione sul  proprio “volere” e sul proprio “fare”, non nel senso di una riflessione astratta ma di un insieme vissuto costituito di emozioni, valori e posizioni soggettive.

Il counselor esprime le sue potenzialità per essere autentico nel momento in cui invita il partecipante a sviluppare le proprie e non si nasconde dietro una maschera professionale o un atteggiamento di “neutrale” oggettività, anzi è  coinvolto e partecipe in prima persona, con i propri desideri, le proprie esperienze e le proprie emozioni. Nel suo lavoro sostiene ed incoraggia il partecipante a diventare responsabile per le sue scelte e le sue decisioni, in modo che il suo spazio d’azione aumenti invece di restringersi. L’individuo, così, con il sostegno e l’incoraggiamento del counselor-conduttore, sviluppa le proprie capacità e impara a realizzare se stesso ed i suoi obiettivi, diventando consapevole sia dei

fenomeni di rigetto che di quelli di adattamento; impara in definitiva a riconoscere la differenza tra la manipolazione, da un lato, e le azioni responsabili, dall’altro. Il couselor non si occupa più di come motivare gli i partecipanti, ma stimola e cerca le loro motivazioni e coinvolgimenti e da questi parte, riparte dal piacere d’imparare che è innato in ogni essere umano.

 Il costruttivismo può chiarire meglio ciò che intendo: da punto di vista costruttivista, infatti, l’uomo è –  compulsivamente/coattivamente – libero, e l’apprendimento è un processo costruttivo attivo dell’individuo che ha luogo in un sistema autopoietico e autoreferenziale, ossia nel suo cervello. Nel corso dell’apprendimento il cervello elabora le proprie soggettive realtà in un processo auto- organizzato  .

Se la conoscenza, sempre da un punto di vista costruttivista, è legata al contesto e all’attività dell’individuo, non esiste un modo unico e universalmente giusto per fare conoscenza, dunque non esistono procedure di conduzione fisse, meccaniche e standardizzate. L’approccio costruttivista offre piuttosto al counselor una struttura teorica da cui ricavare alcune importanti indicazioni sul senso dell’apprendere, sul cosa proporre e come farlo e su cosa è opportuno  evitare.

Bisogna, però, ridisegnare la figura professionale del docente-conduttore che smette di essere il centro dell’attenzione, per diventare un facilitatore e un garante che offre ad ogni partecipanti gli strumenti per permettergli di realizzare la propria realtà di auto-conoscenza

Così “l’istruzione non è causa dell’apprendimento, essa crea un contesto in cui l’apprendimento prende posto come fa in altri contesti” (Wenger, 1998, p. 266), quali la famiglia o il gruppo dei pari.

Non è il counselor-conduttore a determinare meccanicamente l’apprendimento dell’autoconoscenza, ma questo è un processo continuo e pervasivo, in cui la guida e il sostegno attraverso l’insegnamento di alcune nozioni teoriche si pone come una delle tante risorse possibili. Ciò significa dare priorità all’apprendimento rispetto all’insegnamento di sterili teorie epistemologiche; guardare all’insegnamento come un’eventuale mappa come offerta e riconoscere che l’apprendimento è una costruzione individuale del partecipante, ovvero del vero territorio.

Tale costruzione diventa prioritaria rispetto al moralismo dell’istruzione e dell’informazione.

In altre parole, presupposto perché couselor-conduttore possa svolgere efficacemente e consapevolmente la sua funzione, è il riconoscimento da parte sua dell’illusorietà di un rapporto diretto e causale tra insegnamento e apprendimento, che diventa una risposta, possibile ma non predeterminabile e pianificabile, alle finalità di apprendimento del  setting che il counselor-conduttore stesso ha predisposto. Infatti, ciò che il couselor-conduttore dice e propone, viene sempre e comunque interpretato dal partecipante e le interpretazioni quasi mai coincidono con quello che si voleva trasmettere, in quanto il significato viene ricostruito a partire dalle conoscenze pregresse e dagli scopi personali.

 In quest’ottica la lezione tradizionale lascia spazio al seminario esperienziale ovvero alla possibilità, per chi apprende, di fare esperienza diretta, manipolando gli oggetti di informazione e costruendone di nuovi,  utilizzando e decostruendo liberamente.

E’ importante avere la consapevolezza e assumersi la responsabilità del fatto che qualsiasi cosa si percepisce è, come abbiamo visto, influenzata e resa   possibile dall’intenzionalità del soggetto, ossia dipende da una sua costruzione interna, dunque diventa occasione e non causa di apprendimento.

E’ infatti frequente che, durante un seminario esperienziale o un’attività di osservazione, i partecipanti  non sappiano letteralmente cosa guardare; ciò che per il counselor-conduttore è della massima evidenza, resta per i partecipanti confuso in uno sfondo di stimoli che potrebbero avere tutti la stessa importanza.

Tuttavia, ogni essere umano non è mai privo di idee o di spiegazioni sui diversi argomenti che affronta per esempio a scuola. Al contrario, ognuno sviluppa precocemente personali “teorie ingenue” sulla realtà, utiliz zate come  cornici interpretative, come modelli di spiegazione validi fino a che non saranno smentiti; sono questi modelli mentali fortemente strutturati e che si modificano a fatica. L’apprendimento per esperienza allora, diventa un processo di graduale modificazione e ristrutturazione di tali schemi rappresentativi, e delle strutture cognitive che si rivelano  inadeguate alle nuove situazioni. Il counselor-conduttore fornisce, rispettando sempre il campo di coscienza del partecipante, assistenza e facilitazione nella rielaborazione dell’esperienza individuale che resta, comunque, responsabilità del partecipante.

Le teorie ingenue hanno infatti quasi sempre qualcosa di valido e di egoicamente funzionale nel quotidiano; per economicità cognitiva sono difficili da sostituire con quelle fornite da esperti nella relazione fenomenologica e di cui non è altrettanto evidente la viabilità; è quindi necessario porre i partecipanti in condizione di scoprire liberamente dove la teoria ingenua è a lui disfunzionale e dove è necessario modificarla e integrarla alle conoscenze pregresse.

DINAMICA DI GRUPPO COME METODO DI AZIONE- IL SENSO DEL LAVORO DI GRUPPO

Gruppo-Persone

DINAMICA DI GRUPPO COME METODO DI AZIONE

Fu LEWIN a gettare le basi della  dinamica di gruppo studiando i processi del mutamento di opinione e  i “climi sperimentali”  e con la messa a punto del “metodo dei casi” sfruttando la riunione-discussione in piccoli gruppi: la ricerca tutti insieme della problematica del “caso”, per effetto della partecipazione e delle interazioni, giungeva non solo a una migliore acquisizione di conoscenze ma anche a una modificazione degli atteggiamenti personali nei partecipanti, nel senso di una maggiore obiettività e di una migliore socializzazione, capacità di comunicare e di cooperare con gli altri.

Il valore terapeutico della partecipazione a dei gruppi era stato già messo in luce agli inizi del XX secolo da Moreno: nell’interpretazione dei ruoli e nello psicodramma (gruppi di espressione) il mutamento personale, inteso come maggiore adattabilità, era ottenuto sia attraverso la dissoluzione di atteggiamenti personali stereotipati (carattere, copione, personaggio) legati ad una falsa percezione del sé, degli altri e delle relazioni interpersonali, sia attraverso lo svilupparsi di una nuova spontaneità.

RAGIONANDO DEL GRUPPO

Nell’estate del 1946 a New Britain, durante una sessione che mirava a valutare ipotesi riguardanti i comportamenti e i mutamenti di comportamento (tre gruppi di dieci partecipanti più gli animatori ufficiali del gruppo e gli osservatori), per puro caso, durante una riunione con animatori e osservatori, abitanti in loco chiesero di poter partecipare come osservatori volontari, con l’approvazione di Kurt Lewin.

L’effetto dei partecipanti del sentire la descrizione dei loro comportamenti da parte degli animatori e le relazioni degli osservatori volontari (sollecitate anche stavolta da Lewin), fu elettrico, tanto che le prime sedute dopo il fatto si prolungarono fino a giungere a tre ore: i membri di un gruppo, quando vengono obiettivamente messi a confronto con dei dati riguardanti il loro comportamento e i suoi effetti … possono completare in modo assolutamente significativo la loro informazione sulla conoscenza di sé, sugli atteggiamenti di risposta degli altri nei loro confronti, sul comportamento del gruppo e sullo sviluppo dei gruppi in generale (LEWIN 1946).

Nacque allora l’idea dell’analisi del qui e ora che riguarda i comportamenti del gruppo. Concentrarsi sull’hic et nunc significa sostenere i partecipanti a riflettere sui loro comportamenti effettivi nel quadro dell’attuale esperienza comune; il qui e ora è dunque l’esperienza in ciò che essa ha di fatto, di vissuto, di diretto, di non concettualizzato.

L’applicazione del qui e ora costringe senza costringere a distogliere l’attenzione dagli oggetti abituali capovolgendo le abitudini della riflessione – esiste una sorta di disgelo, di non condizionamento; costringe a rendersi conto della distanza tra il reale da una  parte e l’idea, il concetto, che c’è dall’altra; induce a rendersi conto dell’importanza della retroazione, o feedback, ossia il ritorno a noi del nostro messaggio e delle sue conseguenze – “se voglio fare lo spiritoso e gli altri vedono il mio comportamento come un’espressione di aggressività, devo considerare il mio modo di scherzare come una forma di aggressività”

Il gruppo in tal senso realizza le condizioni per un nuovo tirocinio, qualunque esso sia, per il raggiungimento di un obiettivo fenomenologico e pedagogico rivoluzionario quale IMPARARE AD IMPARARE: non insegnare autoritariamente qualcosa o ricevere passivamente delle conoscenze.

MUTAMENTO PERSONALE E SOCIALE

La dinamica dei gruppi cerca di operare un mutamento degli individui  soggettivo e sostenibile in vista di una maggiore ad attività – se ci soffermiamo a pensarci, nella nostra vita l’attività di adattamento realista è bloccata così come la possibilità di vera comunicazione. Abbiamo “categorie” a priori di giudicare, di pensare, di sentire che distorcono e impoveriscono la percezione del presente e condannano il soggetto, a sua insaputa, a vivere una RIPETIZIONE PERMANENTE (IL COPIONE; IL PERSONAGGIO) Ciò fa sì che il reale sia sostituito con le idee  che il soggetto si è fatto. Porre il soggetto in una situazione tale da rendere possibile una sua presa di coscienza è il principio comune della cura psicoanalitica e del gruppo come applicazione della dinamica dei gruppi.

La dinamica di gruppo parte da una concezione nuova della personalità andando al di là della persona come soggetto isolato, rifiutandosi di considerare l’individuo al di fuori del gruppo e quindi considerandolo sempre come soggetto nel mondo – la personalità si sviluppa nel gruppo, nei rapporti con gli altri. In tal senso la dinamica di gruppo è portata a contemplare la possibilità di estendere il mutamento a tutta la società. Nel parlare dei processi di mutamento al livello individuale e al livello delle organizzazioni sociali, bisogna anzitutto menzionare la presa di coscienza, intesa come:

  • confronto tra le nostre categorie di pensiero e i nostri atteggiamenti e la nostra esperienza in ciò che essa ha di immediato, constatato, al livello della vita personale vissuta;
  • constatazione di ciò che può esservi di disfunzionale, nelle nostre categorie e nei nostri atteggiamenti a priori;
  • delucidazione di queste categorie, loro presa di coscienza così come quella degli atteggiamenti e sviluppo della riflessione – rendersi conto di qualcosa di cui fino ad allora non ci si era accorti provoca un immediato mutamento di significati e atteggiamenti aprendo a nuovi orizzonti di senso
  • la scoperta del reale “nuovo”, liberato dalla sua concettualizzazione automatica, a priori e cronica, che ci impediva la percezione al presente (percezione “ingenua e automatica”);
  • il mutamento di orientamento della coscienza che, libera dalla schiavitù del passato può, grazie al presente ritrovato, pensare al futuro.

Questa presa di coscienza avviene nel gruppo e, in particolare, proprio dall’essere – in – gruppo:

I fattori psicologici del mutamento provengono dalla scoperta negli altri di atteggiamenti sociali diversi dai nostri, di cui non avevamo idea o ritenevamo impossibili; dalla scoperta dell’altro come tale, con i suoi problemi soggettivi reali come i nostri ma diversi; dalla scoperta degli scambi e delle idee che essi possono far sorgere; dalla scoperta dell’immagine di sé vista dagli altri, cosa che determina una nuova coscienza di sé; dalla scoperta che si può cooperare senza dover per forza raccontare la nostra vita.

I fattori sociologici del mutamento provengono dal gruppo che esercita tre tipi di influenza: l’influenza delle interazioni; l’influenza della pressione del gruppo – che si esercita nel senso di una integrazione dei suoi membri e che traduce l’esigenza di partecipazione e di co-responsabilità; l’influenza  dei ruoli e del tirocinio del mutamento di ruolo.

Ovviamente avremo precise direzioni e ripercussioni del mutamento che possiamo ritrovare al “livello dell’Io”, al livello del “ruolo sociale” e al livello delle “organizzazioni sociali”.

Livello dell’Io:

1)         aumento della consapevolezza dei nostri sentimenti e delle nostre reazioni;

2)         aumento della consapevolezza dei sentimenti e delle reazioni degli altri e loro effetti su noi;

3)         mutamento di atteggiamenti verso se stessi, verso gli latri, verso il gruppo come tale;

4)         miglioramento del proprio savoir faire nelle relazioni umane, in vista di stabilire relazioni più efficaci e soddisfacenti.

Livello del ruolo sociale:

1)         maggiore consapevolezza del nostro ruolo sociale e della nostra responsabilità nei processi di mutamento a livello personale, di gruppo e dell’organismo sociale in generale;

2)        mutamento di atteggiamento verso il nostro ruolo, il ruolo degli altri, le relazioni sociali nell’ambito del nostro organismo socio-professionale – per una migliore collaborazione;

3)         mutamento di atteggiamento nel metabolizzare ed affrontare le relazioni funzionali con superiori, subordinati, ecc. – dunque, in generale, miglioramento del saper fare.

Livello delle organizzazioni sociali.

1)         maggiore consapevolezza del valore della dinamica dei gruppi;

2)         maggiore consapevolezza dei problemi di organizzazione negli organismi sociali in generale;

3)         mutamento di atteggiamento nell’affrontare i problemi di organizzazione e miglioramento del proprio “saper fare” nella risoluzione di tali problemi dopo aver imparato a “saper essere”

4)         miglioramento dell’efficacia degli organismi sociali ad opera dei piccoli gruppi in seno a tali organismi.

Da quanto sopra espresso, tre sono i valori che emergono della dinamica dei gruppi:

CONOSCENZA,LIBERTA’, RISPETTO DI SE STESSI E DEGLI ALTRI

SEDUTE DI COUNSELING. COUNSELOR CERTIFICATI A.Pro.Co.

relazione d'aiuto

Il processo di Counselling

Il Counselling è un processo di apprendimento fondato sulla relazione tra Counsellor e cliente.

Il Counsellor è un esperto della relazione che a conoscenze di ordine teorico unisce competenze specifiche in questo campo. E’ inoltre in grado di facilitare l’acquisizione di queste conoscenze ai propri clienti, insegnando loro, nella modalità one-to-one e nei gruppi, a gestire i propri rapporti intra e interpersonali per compiere scelte più coerenti con la propria esperienza personale.

Il Counsellor è un professionista che, avendo completato uno specifico percorso di formazione, in possesso del diploma abilitante e iscritto a relativa associazione professionale, è in grado di fornire consulenze di aiuto a clienti individuali, gruppi, organizzazioni. La consulenza del Counsellor è orientata ad aiutare il cliente ad aiutare se stesso.

A questo scopo il Counsellor mette in campo una prassi che, seppur fondata su attitudini implicite e connaturate nella natura umana, è frutto di una formazione articolata e specifica. Tale formazione trova il suo aspetto fondante nella cura dell’intenzionalità e progettualità dell’essere umano, dimensioni entro cui viene individuato l’ambito in cui la persona sperimenta ed esercita la sua abilità di scelta.

Il Counsellor di A.Pro.Co. considera competenze professionali fondamentali:

–        Saper creare e mantenere una tensione differenziante tra sé e il cliente;

–        Sapersi porre come interlocutore credibile;

–        Saper sostenere il cliente nella sua libertà di scelta;

–        Saper co-costruire la definizione di un problema e la sua elaborazione;

–        Saper rispettare il campo di coscienza del cliente;

–        Aver cura che il cliente riconosca i termini della propria decisione e ne possa assumere la responsabilità;

–        Sappia rispettare tale assunzione di responsabilità nei termini in cui il cliente la riconosce come propria possibilità.

A.Pro.Co. riconosce come abilità specifiche del Counsellor:

–        L’esercizio di un linguaggio che rimarchi tale differenza e il rimandare commenti e osservazioni che siano a sé riferite e non al cliente;

–        L’utilizzo di una posizione attentiva ai modi e ai significati che il cliente offre di se stesso;

–        L’esercizio di domande che rimandino sempre al “cosa vuoi fare” del cliente;

–        L’uso di interlocuzioni in cui al cliente viene rimandato ciò che il Counsellor riconosce nel campo di coscienza del cliente, ma che hanno bisogno della validazione del cliente per esser utilizzate;

–        Uso di linguaggio che si accerta della misura in cui il cliente può assumersi la propria scelta e se può farlo. Accettando il risultato come dato di fatto.

Per sedute personali scrivere aLl’indirizzo e mail
absinto.ass@gmail.com

La Relazione ‘come’ Aiuto  nell’ambito Operatore Sanitario-Paziente Dr. Michela De Mattio Medico Specialista in Medicina Interna, Counselor a indirizzo fenomenologico esistenziale

COUNSELING AD ORIENTAMENTO FENOMENOLOGICO ESISTENZIALE

relazione d'aiuto

IO, MARTIN HEIDEGGER E IL MIO CONCETTO DI “CURA”

Ho scelto di affrontare il concetto di RELAZIONE e di CURA facendo riferimento al pensiero e alla riflessione elaborata da Martin Heidegger in Essere e Tempo per cercare di definire l’orizzonte concettuale di chi si approccia al Counselling ad orientamento fenomenologico esistenziale. Sebbene ciò possa risultare arbitrario e soggettivo questo è il modo con il quale io mi approccio al concetto di Cura per come io lo intendo e per come scelgo di affrontare la tematica della relazione

Credo fermamente che il bisogno di relazionarsi con il mondo e l’alterità (l’altro-da-sé) caratterizzi in modo costitutivo l’Essere umano e che le condizioni esistenziali in cui si trova a vivere possano rendere inautentiche ed insoddisfacenti tali relazioni.

Dal punto di vista fenomenologico credo che sia proprio dell’Essere umano lo stare in relazione.

Heidegger ha sottolineato più volte il suo interesse e la sua preoccupazione non tanto per l’esistenza dell’uomo ma quanto per quella  “dell’Essere nel suo insieme e in quanto tale”

In gran parte del suo lavoro ha cercato di giungere ad una determinazione piena e completa del senso dell’esistenza senza cadere nelle trappole della metafisica oggettivante che concepisce l’Essere unicamente come presenza.

Uno dei punti cardine ai quali Heidegger, a mio avviso, è giunto, per poi ripartire è che l’Essere umano non possiede un’essenza che lo definisca a priori ma che l’Essere umano altro non è che il suo modo di Essere, la sua esistenza, e che la comprensione dell’Essere è una possibilità dell’esistenza.

Credo che questa sua prospettiva antropologica sia essenziale e preziosa per chi si propone di costruire una relazione con l’altro da sé ed è questo che ho cercato di portare nel lavoro di gruppo con gli operatori sanitari del pronto Soccorso

L’Essere dell’uomo come Essere nel mondo

 

Credo che l’affermazione a seguire fondi il cardine dell’antropologia heideggerriana :

“Questo ente che noi stessi sempre siamo lo desiniamo con il termine Esserci (Dasein)” (Essere e Tempo)

L’uso del termine Esserci indica il fatto che l’uomo è il suo modo di Essere e la sua funzione nel mondo dove il ci, sta ad indicare che l’Essere dell’uomo è il mondo, ovvero è quell’insieme di situazioni che esperisce fin dalla nascita, indipendentemente dal suo volere. “L’Esser-ci quindi è ciò che è solo in quanto Essere-nel-mondo” (Essere e Tempo) e siccome il mondo è ovunque intorno all’uomo e l’uomo ne è totalmente immerso, non può Essere in nessun caso pensato come separato da esso.

Per Heidegger quindi l’identità esistenziale e quella di mondo, sono indissolubilmente unite, il che vorrebbe dire che la comprensione del mondo umano non può Essere l’analisi di una coscienza (Essere umano) che si progetta liberamente all’interno di una sorta di purezza intenzionale ma dev’Essere analizzata all’interno della struttura del mondo (ambiente) nel quale esperisce la propria esistenza che la condizionano e la avvolgono.

L’Essere quindi, per Heidegger, è dunque Essere-nel-mondo e ciò ha la caratteristica dell’Essere gettati nel mondo a partire da quando nasciamo, dove per gettatezza intendiamo il fatto che l’uomo viene consegnato al mondo, con il quale deve sempre fare i conti e che non è quello che ha scelto. In questo Essere gettato l’Essere umano deve sempre fare i conti con il suo corpo, con il suo passato, con la situazione nella quale si trova oltre che con la sua realtà materiale e culturale.

Esser gettati implica Essere consegnati al determinismo di un mondo che può vanificare ogni suo progetto e chiuderlo; implica stare in una condizione di perenne scacco.

Per il mio vissuto di persona e di persona-medico credo di Essere stata gettata nel mondo due volte: la prima come persona, dalla mia tradizione intesa come famiglia, la seconda come medico dal mondo scientifico-sanitario, dove una strenua e lunga formazione scientifica non permette obiezioni e spazio per domande esistenziali e dove la lunghezza del percorso (12 anni di indottrinamento) e l’angoscia del saper fare rende le persone oggetti, gettati nel mondo.

La gettatezza è per Heidegger la condizione di fatto a partire dalla quale ogni Essere umano può provare a dare un senso al suo Essere-nel-mondo utilizzando una peculiarità ontologica che lo differenzia da ogni altro ente e che è la possibilità di scegliere ovvero “ l’Esserci è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può, nel suo Essere o scegliersi, conquistarsi oppure perdersi e non conquistarsi affatto” (Essere e Tempo)

La peculiarità dell’esserci quindi è quella di trovarsi di fronte ad un ventaglio di possibilità e la sua esistenza altro non è che il continuo rapportarsi a tali possibilità “L’esserci si determina come ente sempre a partire da una possibilità che egli stesso è” (Essere e Tempo)

Questo a mio avviso significa che per comprendere l’uomo non ha nessun senso cercare di comprendere delle proprietà essenziali che lo determinino una volta per tutte come accade nel mondo della medicina allopatica ma è necessario invece considerare le modalità esistenziali in cui l’uomo si definisce in un mondo di enti e di cose, la cui caratteristica è proprio quella di poter Essere utilizzate dall’uomo.

Le cose da cui l’Esser-ci è circondato non sono presenza in sé, indipendenti dall’Esser-ci ma sono strutture di quei progetti che permettono all’uomo di definirsi esistenzialmente.

Quindi è come dire che non esiste un mondo in sé ma esistono molteplici mondi in cui ogni individuo percepisce emotivamente e conosce il mondo: le cose quindi si danno all’Esserci già fornite del significato che l’Esserci ha dato loro in quanto le cose, e come tali sono già inserite come strumenti del suo progettare.

Con questo voglio dire che se dal punto di vista epistemologico il significato dell’oggetto divano è uguale per tutti (divano: sedile per più persone imbottito e con cuscini usato in sale, salotti ed altri ambienti di soggiorno) dal punto di vista fenomenologico il senso del divano è diverso per ogni individuo a seconda dell’esperienza che del divano fa (sedile per più persone imbottito e con cuscini sul quale guarda la televisione quando è annoiato, sedile per più persone imbottito e con cuscini sul quale si distende e passa serate divertenti con amici etc.)

Cos’è quindi la Cura?

-Possiamo prenderci cura degli altri solo se riconosciamo  loro pienamente la libertà di prendersi cura di se stessi

-Per giungere ad arrivare a prenderci cura “insieme” del mondo ritengo indispensabile che l’incontro venga mosso dall’Esserci sempre “proprio”

L’Essere dell’uomo come Essere-con

 

L’Essere per Heidegger è un con-Essere con gli altri

Questa non è una scelta ma un atto costitutivo dell’esistenza umana in quanto l’uomo non può scegliere di avere o non avere relazioni con gli altri ma è quello che è solo perché , necessariamente, per tutta la sua vita è con gli altri.

Il modo in cui per Heidegger l’Esser-ci può entrare in relazione con gli altri è molteplice:

“Essere l’un per l’altro, l’uno contro l’altro, l’uno senza l’altro. Il trascurarsi l’un l’altro sono modi possibili del l’aver cura e sono proprio i modi della deficienza e dell’indifferenza dell’Essere assieme quotidiano e medio. Questi modi di Essere rivelano il carattere della non-sorpresa e dell’ovvietà che sono propri del con- Esserci quotidiano e intra-mondano” (Essere e Tempo)

Per l’esperienza che ne ho fatto, l’Essere-con-altro appare Essere un elemento costitutivo dell’individuo ma che non rende più significativa e ricca di senso l’esistenza umana. In Essere e Tempo infatti gli altri assumono una colorazione coercitiva e quasi opprimente che mi rimanda all’Altrui sartriano per il quale il Conflitto è il senso originario dell’Essere-per-l’Altro in cui ognuno, con il proprio sguardo reifica l’altro, e l’Essere-assieme, nella dimensione della quotidianità sembra Essere in definitiva ciò che impedisce al singolo di Essere autenticamente se stesso.

A primo impatto questa può apparire una visione cinica e nichilista dell’esistenza, io credo invece che sia il solo punto di partenza che permette di giungere ad un autentico Essere-con

In che modo l’Essere-con impedisce all’individuo di Essere autenticamente se stesso?

 

L’Essere-con (mit sein) che l’Esserci fa quotidianamente si esprime nella forma dell’esistenza anonima e inautentica in cui domina incontrastato il ” Si dice e il Si fa”. È in questo modo a mio avviso che tutto viene livellato dall’opinione comune facendo diventare l’Essere umano convenzionale e prevedibile.

Questo accade nel mondo e anche nel microcosmo della sanità dove l’individuo è così imbrigliato in questa modalità esistenziale del “Si dice e Si f a” che perde se stesso e le proprie autentiche

soggettive possibilità. E’ dentro questa modalità che la su a libertà finisce per ess ere e p er pens are   quello che tutti sono e che tutti pensano ” Questo Essere assieme dissolve completamente il singolo Esserci nel modo di Essere degli altri. È in questo stato di irrilevanza e di in distinzione che il Si

 

esercita la sua tipica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica….troviamo scandaloso ciò che si trova scandaloso” (Essere e Tempo)

Nella mia esperienza questo è il modo di Essere-con nella dimensione quotidiana in cui ogni originalità sembra dissolta nel risaputo e ogni segreto perde la sua forza. In questa dimensione in cui l’opinione del Si ha già anticipato ogni giudizio e ha già preso le sue decisioni, l’Esserci si trova senza alcuna responsabilità poiché ” Il Si non ha nulla in contrario a che si faccia sempre appello ad esso” (Essere e Tempo)

Vivere nel mondo del Si risulta gradito e comodo per l’Esserci in quanto il Si fornisce certezze e stabilità che però hanno il prezzo della perdita del proprio Essere più autentico

Il rapporto quotidiano con gli altri si struttura quindi secondo la modalità della chiacchiera, del pettegolezzo, della curiosità, dell’interpretazione e dell’equivoco dentro al quale l’Esserci non può che perdersi.

Dentro questa dimensione esistenziale del Si ciò che si rivela è “Quel modo fondamentale dell’Esserci della quotidianità che noi chiamiamo la deiezione dell’Esserci”  (Essere e Tempo)

La deiezione altro non indica il rapporto quotidiano tra l’Esserci e il mondo che si caratterizza come smarrimento nel luogo comune e nella sua prevedibilità e il mondo della scienza oggi è zeppo di luoghi comuni e di “Si fa così”

Le pagine in cui Heidegger scrive della deiezione, mi sono apparse quasi profetiche di una società contemporanea:

“La presunzione del Si di condurre una vita autentica e piena crea nell’Esserci uno stato di tranquillità: tutto va nel modo migliore e tutte le porte sono aperte…… Questo stato di tranquillità dell’Essere inautentico non conduce però all’inerzia e all’ozio, ma all’attività sfrenata……. Una curiosità polivalente universale dell’Esserci” (Essere e Tempo)

Questa onniscienza esibita, questa reificazione superficiale e onnivora sembra Essere il nostro Essere uomini in un mondo in cui il prodigioso avanzare del tecnicismo ci illude di Essere onnipotenti. È proprio dentro questo mondo che la qualità delle relazioni sociali sembra Essere ancora più difficile.

Mi preme sottolineare però che questa affermazione per Heidegger non è una condanna o una espressione di giudizi di valore, la deiezione non è intesa come una condizione di alienazione sociale ma una modalità esistenziale dell’uomo.

La soluzione che propone Heidegger alla deiezione credo sia una soluzione che si sposa con il mio modo di sentire e di intendere l’esistenza è che essendo la deiezione una modalità esistenziale che caratterizza l’Essere dell’uomo in modo necessario, l’unico modo per uscirne è seguendo la chiamata della coscienza intesa come consapevolezza e alla responsabilità dell’Esserci del suo vivere nell’inautenticità.

Il potere della consapevolezza

 

È solo la coscienza intesa come consapevolezza di sé, a richiamare l’Esserci che si è smarrito nell’anonimato del Si. E’ solo la consapevolezza che può districarlo dal tranquillizzante rifugio in cui si è nascosto per ricondurlo a sé:

” La chiamata della coscienza è il risveglio del se stesso al suo poter Essere se stesso e perciò una chiamata dell’Esserci alle proprie RESPONSABILITÀ “ (Essere e Tempo)

È quindi solo attraverso l’esperienza emotiva dello smarrimento del vuoto e dell’angoscia che l’Esserci che, ha perduto le certezze del mondo del Si, scopre con sorpresa che  l’esistenza  è costituita da infinite possibilità e che solo sull’assunzione di tali possibilità può fondarsi un progetto di libertà .

Il problema che si pone però è che essendo stato gettato nel mondo l’Esserci si trova di fronte a due ostacoli che gli impediscono di realizzare le più autentiche possibilità del proprio Essere:

  • Il mondo del Si è l’invischiamento in quei rapporti mondani dominati da
  • La sua gettatezza originaria, intesa come tradizione ( famiglia: microcosmo dove vige la legge per la quale “Quello che tu ti aspetti che il mondo voglia da te è quello che i tuoi genitori volevano da te”) che fa si che anche ogni suo progetto sia nullo in quanto gettato e che lo rinvii, per dirlo alla sartriana, e lo rinsaldi alla sua fatticità.

Questa dimensione non ha a che fare, a mio avviso, con un disvalore dell’Essere o un disvalore del singolo progetto ma è un “costitutivo esistenziale della strutta dell’Essere del progettare” (Essere e Tempo)

In definitiva dunque ” l’Essere dell’Esserci in quanto progetto gettato significa: (il nullo) Essere fondamento di una nullità. Il che significa: l’Esserci è come tale colpevole” (Essere e Tempo)

Questa nullità esistenziale e questa colpevolezza non ha per Heidegger il carattere di una mancanza rispetto ad un ideale che non viene raggiunto ma è considerata come la dimensione più autentica dell’Esserci, come quel niente che è, al fondo il nostro Essere.

In questo caso il richiamo al nostro Essere non può che Essere un richiamo a tale nullità che si rivela in quella che Heidegger chiama ESSERE-PER-LA-MORTE, non concepita come fine dell’esistenza ma come la possibilità più propria e più autentica dell’Esserci.

È proprio in questa capacità di riconoscere la possibilità della morte, assumendola su di sé come una dimensione anticipatrice, che l’uomo può ritrovare il suo Essere più autentico.

Solo separandosi dai suoi simili che, facendo parte del mondo del Si, lo separano dalla sua ipseità, l’Esserci ha la possibilità di consacrarsi esclusivamente all’Essere se stesso, liberandosi, definitivamente, da quel mondo comune del Si, nel quale si coinvolge e si disperde.

Il prossimo quindi, l’alterità, l’altro-da-me si rivela un elemento strutturalmente necessario sebbene molesto nei confronti dalla possibilità di Essere se stessi in quanto l’esistenza non è mai isolata ma è sempre un Essere-con (mit-sein)

Heidegger è stato criticato ed interpretato da molti, in primis da Biswanger che   ha individuato come modalità di trovare la propria autenticità per sfuggire alla dittatura del Si nella capacità di costruire valori con l’altro con amore e amicizia. (Per un’antropologia fenomenologica- Biswanger)

Essere con gli altri e prendersi cura di loro

 

Io credo ci sia un fraintendimento nella interpretazione dell’Essere-per la-morte il quale senso si comprende in quel capito di Essere e Tempo in cui Heidegger analizza la peculiarità degli esseri umani mostrando come l’incontro con l’altro-da-noi sia caratterizzato dall’impossibilità di catalogare l’altro come cosa, cioè in base alla sua utilizzabilità poiché l’altro mi è innanzitutto simile e solo in seguito potrò pensarlo come differente.

Essere-con l’alterità nel mondo significa includere l’altro nel rapporto di Cura ed è proprio il modo in cui interpretiamo il rapporto di Cura verso gli altri ad Essere esposto all’alternativa tra autenticità e inautenticità. Credo che possiamo prenderci cura degli altri solo se siamo in grado di riconoscergli pienamente la libertà di prendersi cura di se stessi e solo dopo potremo disporci a prenderci insieme cura del mondo che sarebbe  come dire che:

“prima che ci sia la possibilità che ci sia un noi ci deve Essere necessariamente un Io un Tu e prima ancora che ci si possa prendere cura di un Tu bisogna saper sostenere la Cura dell’Io”

Questo affermazione di Heidegger sta alla base di ciò che io personalmente come Counselor considero una Relazione Terapeutica, una Relazione di Aiuto in quanto credo fermamente che non ci sia la possibilità di avere cura dell’altro-da sé se non si riesce a sostenere la cura dell’io. Avere Cura, come stare in empatia non è buonismo, non è carità cristiana, non è simpatia ne tanto meno confluenza e soprattutto non è un atto spontaneo ma è qualcosa che costa fatica alla quale si va “addestrati”. E questo è come dire per esempio che ogni persona-operatore sanitario si relaziona alla persona paziente con la sua gettatezza ed opera nelle modalità del “SI dice, si fa” e su questi presupposti non ci può Essere relazione e non ci può Essere Cura, ci può Essere solo terapia dove per terapia intendo la terapia farmacologica e l’informazione che non prevedono alcuno scambio e nessun confronto. Mi preme anche affermare che ciò non ha nulla a che fare con l’amore e l’amicizia di cui scrive Biswanger in ” Per un’antropologia fenomenologica”

Il modo di Essere dell’Esserci che si incontra nel mondo è diverso dall’utilizzabile dalla semplice presenza poiché il mondo dell’Esserci rilascia un ente che non è solamente, in generale diverso dalle cose, ma che conformemente al suo modo di Essere, in quanto Esserci, è anch’esso “nel” mondo nel modo di Essere dell’Essere-nel-mondo e come tale è incontrato nel mondo. Questo ente quindi non è ne una semplice presenza ne utilizzabile, ma è così come è l’Esserci stesso che lo rilascia ovvero anch’esso ci-è-con.

Gli Atri che non sono Io sono innanzitutto miei simili

 

Io credo che la caratterizzazione dell’incontro con gli altri prenda quindi le mosse dell’Esserci sempre proprio ma non per fuggire nell’isolamento dell’Io, come riteneva Biswanger, quanto per “creare” un passaggio da questo isolamento agli altri. “Gli altri non sono, coloro che restano dopo che io mi sono tolto, gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali quindi si è anche” (Essere e Tempo)

 

 

Gli Altri si incontrano, prima di ogni distinzione di me, come soggetto in un ambiente comune

Gli altri non si incontrano cogliendoli in base ad una distinzione preliminare di sé, come soggetto innanzitutto presente, dai restanti soggetti, essi pure semplicemente presenti; non quindi guardando a me stesso quale fondamento della contrapposizione agli altri. Gli altri si incontrano a partire dal mondo in cui l’Esserci prendente cura nell’ambiente si mantiene essenzial-mente. L’incontro con gli altri ( dato fenomenico) ha luogo “nell’ambiente mondano”

La comprensione di sé avviene nella dimensione mondana in cui siamo con gli altri, ovvero in cui noi incontriamo gli altri nel loro Essere-nel-mondo.

Anche quando gli altri non fanno niente, non ci appaiono mai come “cose umane” semplicemente presenti perché anche il fare niente è un modo di Essere esistenziale, consistente nel soffermarsi presso tutto e presso nulla, senza prendersene cura e senza previsione ambientale. L’altro si incontra solo nel suo Con-Esserci nel mondo.

 

 

La Cura come Essere-Insieme

 

L’incontro con gli altri, per Heidegger, avviene sempre nell’ambito della Cura Quanto ai modi del l’aver Cura ci sono due possibilità :

  • L’aver Cura può in un certo modo sollevare l’altro dalla “cura” sostituendosi a lui nel prendersi cura, intromettendosi al suo Questo aver cura assume, per conto dell’altro, ciò di cui ci si deve prendere cura. L’altro risulta allora espulso dal suo posto, re-trocesso per ricevere a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendeva cura, risultandone sgravato. In questa forma di cura l’altro può Essere trasformato in dipendente e in dominato, anche se il predominio è tacito e dissimulato per chi lo subisce. Questo aver cura, che solleva dalla cura, condiziona largamente l’Essere-assieme e riguarda per lo più il prendersi cura degli “utilizzabili”
  • Opposta a questa è la possibilità di avere cura la quale, anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter Essere “esistentivo”, non già per sottrarre loro la cura, ma per inserirli autenticamente in Questo modo di aver cura riguarda la cura autentica, cioè l’esistenza dell’altro e non qualcosa di cui egli si prende cura. Questo modo aiuta l’altro a divenire autentico nella propria cura e LIBERO PER ESSA.

L’aver cura si rivela quindi come una costituzione d’Essere dell’Esserci che, nelle sue diverse possibilità è intrecciata da un lato con l’Essere-per il mondo di cui l’Esserci si prende cura e dall’altro, con il suo autentico Essere-per il proprio Essere.

Considerazioni

 

Ovviamente tutto questo cambia l’ottica della relazione sanitario-paziente in quanto la persona-paziente andrebbe inserita autenticamente nella Cura.

Ma questo soprattutto cambia l’ottica relazionale tra Essere umano ed Essere umano in qualunque sfera esistenziale.

Un Essere-assieme inoltre, che trae origine dal fare le stesse cose resta per lo più non solo limitato ai rapporti esterni, ma dominato dal distacco e dalla riserva.

L’Essere-assieme di coloro che sono impegnati nello stesso “affare” spesso non si nutre che di diffidenza.

Al contrario, l’impegnarsi in comune per la stessa causa è determinato dall’Esserci che è toccato nel proprio.

Credo fermamente che solo questo legame autentico rende possibile la determinazione “giusta” della cosa in questione e rimette l’altro alla propria libertà.

Nello stesso modo l’Essere-assieme può Essere autentico in gruppo, per esempio di lavoro come quello di una equipe, solo quando ognuno si pro-getta per una stessa causa che è diverso da impegnarsi nello stesso “ affa re”